Ho deciso di scrivere questo articolo mossa dalla evidenza, che mi porta il mio lavoro di terapeuta, di come molta parte della sofferenza e delle “nevrosi” che affliggono le persone che incontro, sia legata a tematiche come la separazione, l’abbandono e la perdita (non solo dell’Altro, ma anche di Se stessi in funzione del mantenere il legame).
Non scrivo di mio pugno, ma intendo ripercorrere i punti che lo psicanalista Massimo Recalcati tocca in una delle conferenze del suo ciclo chiamato “Lessico Amoroso”.
L’amore: gli amori, dice, portano con sè la vocazione dell’eternitá. Si costruiscono sull’illusione, almeno per alcuni, del per sempre. Ma per esperienza sappiamo che gli amori capita che finiscano. È da questo paradosso che parte L’excursus di Recalcati lungo i sentieri della fine di un amore.
Tutto inizia con l’abbandono che provoca, in chi subisce il taglio della separazione, una ferita dolorosa. Questa ferita ci ricorda che la rappresentazione sferica dell’ amore, come totalità realizzata dei due che fanno uno è un’illusione. L’amore quindi, contraddicendo la rappresentazione che Platone ne fa, non è ciò che unisce. L’amore espone al rischio della perdita, all’esperienza della separazione.
Il soggetto abbandonato si sente vuoto, svuotato, inerme e anche il mondo attorno a sè appare svuotato: il volto del mondo non è più quello di prima quando lui o lei c’erano. Un vuoto si apre nel cuore di chi viene abbandonato.
Ma perché la separazione è così dolorosa?
La separazione, spiega Recalcati, non è semplicemente allontanamento, prendere le distanze. La separazione, riprendendo il neologismo di Lacan, è “sè-partizione”: quando io mi separo taglio un pezzo di me stesso, quando io mi allontano una parte di me resta attaccata all’oggetto che se ne è andato. Quindi io perdo una parte di me. Ecco perché nelle separazioni si verifica quello “svuotamento libidico”, come dice Freud, per cui chi viene abbandonato si sente svuotato.
La separazione è perdita, non solo dell’Altro, ma anche di parti di Sè. Ecco perché la melanconia, l’affetto depressivo, accompagna sempre l’esperienza della separazione: ci si sente inutili, privi di significato.
La separazione è esperienza, quindi, dell’assenza. Una assenza, dice Recalcati, sempre presente. “Non penso che a lei/lui, eppure lei/lui non è più con me”. Ed è questo un altro paradosso a cui siamo esposti. Viviamo una assenza che si fa presenza ingombrante: il non esserci più dell’Altro, il vuoto lasciato, la perdita sostanzialmente diventa l’ingombro psichico con cui chi è abbandonato deve fare i conti.
Ma come? Come possiamo liberarci di questa assenza che è diventata una forma quasi persecutoria della presenza? È questa la domanda che pone Recalcati e che, citando poi Freud, guida nella ricerca di una indicazione molto precisa. Per superare il dolore della perdita occorre fare un lavoro, e questo lavoro si chiama lutto. Dal punto di vista psichico è in tutto simile al lavoro che si deve fare quando una persona cara ci lascia entrando nel mondo dei morti.
Il lutto: l’elaborazione della separazione implica tre punti fondamentali e sono il dolore, il tempo e la memoria. Per recuperare il senso perduto della nostra esistenza occorre darsi la possibilità di stare nel dolore ed entrare in contatto con la ferita che chi se ne è andato lascia. Poi, serve del tempo, del tempo per sgomberare l’assenza e ritornare presenti a noi stessi. Tutto questo si fa esercitando la memoria: abbiamo bisogno cioè di ripassare penosamente per tutte le stazioni del tempo vissuto assieme, fino alla fine del processo di elaborazione del lutto. E sarà compiuto quando quello che è stato verrà riconosciuto fino in fondo come parte della nostra vita, che è stata, e ora non è più.
Sul finale Recalcati mette un po’ in guardia dal praticare due apparentemente facili e in realtà illusorie reazioni alla fine di un amore, alla perdita in generale, ovvero il sostituire chi se ne è andato o l’odio verso chi ci ha abbandonato. Entrambe le operazioni consentirebbero di evitare di guardare e toccare la ferita della separazione, e quindi di sentirne il dolore, ma questa anestesia non curerebbe comunque la ferita, che resterebbe li finché la vita non ci metterebbe nuovamente di fronte ad essa.